Un bozzolo di metallo e vetro

Alcune considerazioni illuminanti sugli effetti deleteri della “cultura individualista dell’automobile“.

Per pensare a nuovi modelli di mobilità sostenibile, che forse passano sempre più dal trasporto pubblico, più che dalle automobili, anche se condivise come nel car sharing, car pooling o esperienze come bla bla car e affini; una mobilità sostenibile che passa soprattutto per una riflessione sensata sulla mobilità realmente necessaria, l’eliminazione degli spostamenti non effettivamente utili e necessari, legati soprattutto alla soddisfazione di bisogni indotti per alimentare i consumi, a partire da una riflessione seria su categorie quali pubblico, privato, individuale e comune; nuove politiche rispetto allo spostamento inutile delle merci in giro per il mondo solo per il profitto e senza nessuna utilità e ricaduta diretta in un’ottica di economia dei territori e sviluppo locale (si pensi al proliferare inutile della logistica connessa agli acquisti online, che attualmente rappresentano soltanto una modalità di precarizzazione del lavoro e di isolamento dei consumatori). Come sempre, la soluzione dei problemi passa per la riflessione sulle idee, i valori, le credenze, le emozioni, i miti che li generano. Senza cambiare le condizioni culturali e simboliche condivise che li generano è impossibile superarli.

Nella nostra cultura, comunque, c’è un prodotto della tecnica che ha profondamente alterato il nostro modo di vivere, un mezzo da cui dipendiamo cosi strettamente per la soddisfazione di tanti bisogni, che è difficile pensare che potremmo mai farne a meno. Parlo dell’automobile, naturalmente. L’automobile è il più grande divoratore di spazio pubblico e personale che l’uomo abbia creato. A Los Angeles, che è un pò il regno delle quattro ruote, Barbara Ward ha calcolato che il 60-70 % dello spazio è dedicato ai veicoli: se ne va in parcheggi, strade e corsie di scorrimento. Tutto spazio che potrebbe essere destinato a giardini pubblici, a marciapiedi e viali pedonali, dove la gente potrebbe incontrarsi e sviluppare rapporti più umani, viene ingoiato dall’automobile. Questa situazione comporta altre gravi conseguenze: non solo la gente non ha più voglia di andare a piedi, ma anche quelli che lo desiderano non trovano più il posto per camminare. Cosi gli uomini non solo si indeboliscono fisicamente, ma restano separati, tagliati fuori dal prossimo. Andando a piedi, le persone imparano ad incontrarsi, e a conoscersi, se non altro di vista; ma con le automobili questo non è più possibile: lo sporco, il frastuono del traffico, il gas degli scappamenti, lo smog, le lunghe file di macchine parcheggiate hanno reso troppo sgradevoli e fastidiosi gli spazi cittadini […] l’automobile non solo rinchiude i suoi occupanti in un bozzolo di metallo e di vetro, tagliandoli fuori dal mondo esterno, ma impoverisce anche la sensazione del movimento attraverso lo spazio, isolando i viaggiatori dalla strada e dai suoi rumori e, soprattutto, contraendo il campo visivo: il guidatore di muove nella corrente del traffico, e i particolari più prossimi del paesaggio gli passano sfocati dalla velocità […] l’automobile isola l’uomo tanto dall’ambiente quanto dai contatti umani; permette soltanto i tipi più rozzi e limitati dei rapporti di relazione: la rivalità, l’aggressività e lo spirito di distruzione […] Se si vuole ricondurre gli uomini a sentirsi uniti, se si vuole dare loro la possibilità di conoscersi e di familiarizzare e di vivere a più intimo contatto con la natura, sarà necessario prendere qualche provvedimento radicale per risolvere i problemi posti dall’automobile.

(Edward T. Hall, La dimensione nascosta, 1966, tr. It. Milano: Bompiani).

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