Alla luce dei riscontri della letteratura psicosociologica sul tema delle organizzazioni e della mia esperienza sul campo, con imprese piccole, medie, grandi e multinazionali, la risposta che darei a questo quesito non può che essere che la seguente: la relazione tra l’impresa, come intreccio di tutte le sue componenti oggettive e soggettive e le dinamiche strutturali e funzionali che la costituiscono e l’imprenditore, che ad essa dà, si, vita, ma con la quale poi si trova ad interagire. L’imprenditore, per quanto dotato di qualità eccellenti, resta una delle componenti in gioco e senza una efficace e produttiva interazione tra tutte le componenti in gioco nel sistema impresa da solo può poco.
Questa prospettiva sul tema sembra per avere poca fortuna, sia tra gli imprenditori, che tra le imprese di consulenza. E le conseguenze di ciò sono sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vedere, scevri da ideologismi e fondamentalismi aziendalisti.
Una recente esperienza di collaborazione con una società di consulenza aziendale è stata l’occasione per me di una riflessione intorno alla natura organizzativa della consulenza aziendale. Oggetto della collaborazione era un intervento di analisi e supporto alla gestione di un passaggio generazionale in una media azienda che opera efficacemente sul mercato da diversi anni. La società di consulenza aveva ipotizzato un intervento centrato sui singoli membri della direzione aziendale, secondo appunto il modello per cui una buona azienda è fatta dalla qualità dell’imprenditore – o imprenditori – che la dirigono. Ma una buona azienda è una squadra e si basa sulla qualità delle dinamiche di gruppo che si creano tra i suoi membri e non solo su quelle di chi le dirige. In particolare, questa contrapposizione di vedute sulla natura dell’impresa si è concretizzata nella richiesta da parte dell’azienda di consulenza di effettuare – in quanto io psicologo – una valutazione individuale dei singoli membri della direzione aziendale dell’impresa che potrebbero succedere ai loro genitori nella gestione della stessa, attraverso la somministrazione di un test di personalità.
Dopo un primo confronto con la società di consulenza e con l’azienda, ho condivido con l’azienda di consulenza le seguenti riflessioni.
Da un punto di vista più strettamente teorico-metodologico le mie perplessità rispetto ad un approccio di tipo individualista alla questione, basato sull’analisi e lo sviluppo del singolo futuro dirigente potenziale sono legate alla constatazione che i problemi organizzativi che presenta l’azienda cliente sono appunto di tipo organizzativo (Avallone e Bonaretti 2003, Avallone e Paplomatas 2005, Colì et al. 2012, Francescato et al. 2008, Ruggieri et al. 2014) e non riconducibili al ruolo specifico di singoli individui, nel senso che sono il prodotto delle modalità e regole – esplicite ed implicite – con cui si organizzano le relazioni tra le diverse persone/ruoli presenti in azienda – anche in funzione delle più ampie dinamiche relazionali di natura sociale, politica, economica esterne all’impresa – e non l’effetto delle caratteristiche specifiche di qualcuno in particolare, neanche nel caso del o dei titolari dell’impresa stessa. Questo punto di vista trova supporto sia nella letteratura di psicologia e sociologia del lavoro e delle organizzazioni, che nella mia esperienza personale – di quasi 20 anni – a contatto con realtà organizzative di diversa tipologia (piccole e medie imprese, grandi aziende e multinazionali). Quindi, rispetto ad un lavoro impostato in chiave individuale, a partire dalla somministrazione di un test di personalità al singolo futuro potenziale titolare e dirigente d’impresa, potrebbe rivelarsi più efficace intervenire secondo un approccio sistemico-relazionale basato sull’utilizzo dello strumento del gruppo – e più specificamente della tecnica del focus group[1] – nella prospettiva di una messa a fuoco degli elementi di rappresentazioni condivise che fondano il funzionamento quotidiano dell’azienda, nell’interazione tra soci, figli dei soci, personale e specifiche figure chiave. Inoltre mi domando quali elementi specifici, utili al lavoro di consulenza intrapreso per favorire un processo di sviluppo organizzativo e passaggio generazionale nell’impresa cliente, derivano dalla messa a fuoco delle caratteristiche personali dei figli degli attuali titolari, che potrebbero in futuro prenderne il posto alla guida dell’azienda. E da questo scaturiscono altri dubbi rispetto alla scelta dei destinatari di una eventuale valutazione e consulenza individualizzata: perché solo i figli dei titolari attuali e non anche altre figure chiavi – ed eventualmente quali – che giocano un ruolo strategico nella gestione dell’impresa, anche al di là del loro ruolo formale, tenuto conto della funzione strategica che potrebbero continuare a mantenere anche successivamente alla fase di passaggio generazionale, se non anche nella successione all’attuale proprietà aziendale. E da questo elemento nasce un ulteriore dubbio rispetto a quanto possa essere accettato con reale serenità (senza influire negativamente sulle dimensioni di clima, cultura ed altri aspetti trasversali dell’organizzazione aziendale) da parte di tutti quelli a cui venisse proposta un’azione di questo tipo.
Da un punto di vista pratico-economico, l’utilizzo dei test di personalità comporta un costo maggiore, da parte dell’azienda cliente, rispetto all’utilizzo di tecniche di gruppo, nel senso che ogni singolo test va somministrato, analizzato e restituito individualmente e, considerato che dovremmo valutare tutti i figli degli attuali titolari d’azienda, solo questa fase del progetto equivarrebbe al tempo e costo di una ben più ampia fase di analisi complessiva rispetto alle modalità di funzionamento organizzativo dell’azienda e di valutazione delle possibili ipotesi di passaggio generazionale da portare avanti.
C’è poi una questione legata alla deontologia professionale dello psicologo, unica figura titolata per legge a trattare i test e i loro risultati, in ragione della quale i risultati specifici dei test sono condivisibili in toto solo tra psicologo e soggetto “testato”, con l’individuazione di aree di sviluppo personale su cui poi la singola persona interessata può decidere liberamente se e come lavorare personalmente, mentre gli elementi di condivisione più generale restano su un piano meno specifico e più generico. Da questo elemento scaturisce un’ulteriore riflessione circa l’utilità marginale dell’uso del test rispetto al tipo di lavoro che si vuole portare avanti con l’azienda cliente, che implica una maggiore messa a fuoco e condivisione rispetto agli obiettivi e prodotti della consulenza proposta alle aziende.
Inoltre, sempre da un punto di vista teorico, se da un lato il test di personalità ci fornisce una fotografia della situazione personale anche rispetto alle dimensioni della leadership, dello stile collaborativo, del ruolo all’interno dei gruppi, della capacità di persuasione, dello stile di pensiero, delle competenze organizzative, personali e sociali, questi elementi emergono anche dal lavoro di analisi ed intervento di gruppo sulle modalità di funzionamento organizzativo dell’azienda, con il vantaggio – per giunta – che il lavoro di facilitazione di gruppo con i figli dei proprietari attuali dell’azienda, i titolari ed eventuali altri attori che attualmente e/o successivamente potranno entrare in gioco nella definizione del progetto di passaggio generazionale costituisce già l’intervento organizzativo, su un piano di gruppo (nucleo fondante l’operatività di un’impresa, più che quello individuale), secondo una modalità intervento di ricerca-azione, in cui “diagnosi” ed intervento/trattamento vanno di pari passo; mentre il ricorso ai test, in tal senso, ci farebbe fare un passo indietro, riportandoci ad un livello di “diagnosi” individuale, il che comporta poi un ulteriore lavoro per essere trasposto su un piano di gruppo-organizzativo (che è l’unico a cui poter agire per risolvere problemi “organizzativi”), in termini sia di “diagnosi”, che di “trattamento/intervento”.
Con questo non sto dicendo che il test sia inutile in assoluto. Ci dice molte cose utili – che però in buona parte restano nello scambio psicologo-soggetto “testato”, per i motivi di deontologia sopra riportati – ma ci dice queste cose su un piano principalmente individuale, per cui poi da quel piano si deve fare un passaggio ulteriore al piano gruppale ed organizzativo. In tal senso il lavoro di consulenza organizzativa impostato in chiave individuale con i singoli attori da valutare inizialmente con un test di personalità individuale si traduce quindi anche in un fattore di rallentamento del lavoro di consulenza con l’azienda cliente ed in uno spreco di tempo e budget, rispetto ai vincoli di tempo e di budget di questo progetto e di ogni progetto di intervento con una realtà organizzativa e d’impresa.
Riferimenti bibliografici
Avallone, F. e Bonaretti, M. (2003). Benessere organizzativo. Per migliorare la qualità del lavoro nelle amministrazioni pubbliche. Roma: Rubettino Editore
Avallone, F. e Paplomatas, A. (2005). Salute organizzativa, psicologia del benessere nei contesti lavorativi, Milano: Raffaello Cortina Editore
Colì, E., Giachi, L., Giuffrida, S., Ippoliti, O., Micolitti, T., e Rissotto, A. (2012). Il benessere, il clima e la cultura delle organizzazioni: significati ed evoluzione in letteratura, Roma, CNR
Francescato, D., Tomai, M. e Solimeno, A. (2008). Lavorare e decidere meglio in organizzazioni empowering ed empowered. L’analisi organizzativa multidimensionale e la formazione empowering come strumenti di intervento nei contesti di lavoro, Milano: Franco Angeli
INAIL (2011). Valutazione e gestione del rischio da stress lavoro-correlato. Manuale ad uso delle aziende in attuazione del D. Lgs. 81/08 e s.m.i.
Merton, R. (1987). The focussed interview and focus group: continuities and dis-continuities, Public Opinion Quarterly, 51, 550-6
Ruggieri, R., Pozzi, M. e Ripamonti, S. (2014). Italian family business cultures involved in the generational change, Europe’s Journal of Psychology, vol. 10 (1), 79-103
Trinchero R. (2002). Manuale di ricerca educativa, Milano: Franco Angeli
[1] Il focus group è un’intervista di gruppo in cui l’intervistatore, detto anche moderatore, conduce l’intervista su un gruppo composto da un numero limitato di soggetti (da un minimo di 6 ad un massimo di 10-12). È un metodo particolarmente utile per esplorare in modo approfondito le opinioni, gli atteggiamenti o i comportamenti di una certa collettività e per approfondire gli atteggiamenti sottostanti al pensiero ed al comportamento umano (Trinchero 2009). Il focus group si caratterizza per i seguenti aspetti: i partecipanti ai focus condividono uno stesso o analogo contesto o esperienza di vita, hanno assistito ad uno stesso evento o ad un evento con caratteristiche simili; gli elementi significativi dell’evento sono stati precedentemente studiati in modo tale che il ricercatore possa realizzare il Focus Group al fine di sottoporre a controllo empirico le ipotesi di ricerca; il Focus Group viene condotto sulla base di una scaletta di domande, stabilite precedentemente, su cui il moderatore del focus dirige l’attenzione dei partecipanti (Merton, 1987).