Nell’analisi dei sistemi produttivi locali assume un ruolo centrale il fenomeno dei distretti industriali, in quanto è proprio a partire dalla constatazione del successo di questo tipo specifico di organizzazione produttiva che emerge – a livello sia di ricerca che di policy – l’interesse per questo tema. Negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, caratterizzati dalla crisi del modello produttivo fordista e dal declino delle grandi imprese gerarchico-funzionale (Pichierri 2007), ci si accorge che in alcune regioni d’Italia (inizialmente Toscana ed Emilia Romagna) sistemi di piccole imprese con le stesse specializzazioni produttive danno prova di grande vitalità in termini di occupazione, innovazione ed esportazioni.
Il concetto di distretto industriale è stato sviluppato soprattutto da Becattini (2000), che ha studiato i sistemi produttivi locali della Toscana, sulla base del modello degli industrial districts di Marshall (1972). La sua analisi mette in luce il ruolo chiave giocato in questi contesti produttivi dall’integrazione tra i principi regolatori della comunità e del mercato, che invece di entrare in conflitto tra loro, si rafforzano a vicenda, evidenziando cosi l’influenza dei fattori non economici, sociali, sulle performance economiche. Una combinazione perfetta di efficienza economica e solidarietà sociale, che si propone ben presto come una risposta possibile alla crisi del fordismo (Pichierri 2007). A questo proposito si parlerà anche di capitale sociale, inteso come insieme di relazioni sociali a disposizione degli attori economici (imprese e lavoratori), in grado di fornire loro le risorse cognitive e normative utili al raggiungimento dei loro obiettivi produttivi (Trigilia 2005).
Il successo dei distretti industriali andò avanti fino agli inizi degli anni novanta, quando la fase di istituzionalizzazione degli stessi, attraverso la legge 317 del 1991, che delegava alle regioni l’individuazione dei distretti e poneva le condizioni per l’accesso a finanziamenti pubblici, segnò l’inizio del loro declino. Le loro specializzazioni, spesso tradizionali, il loro carattere manifatturiero e la piccola dimensione li espose alla concorrenza dei paesi emergenti (Pichierri 2007, 2011).
La crisi del distretto industriale non segna però la fine dei sistemi produttivi locali, quanto invece l’avvio di una trasformazione che porta all’emergere di tipi diversi di distretti produttivi locali: le reti di imprese, costituite da piccole e medie imprese concentrate nello stesso sistema territoriale, in rapporto di sub-fornitura con grandi imprese clienti ed i cluster empirici di piccole e medie imprese specializzate per settore e spesso in rapporto diretto con i clienti finali, entro mercati frammentati e instabili (Crouch et al. 2004).
Alla fine del ventesimo secolo il concetto di distretto industriale viene sostituito da quello di cluster, definito da Porter (2000) come un insieme di imprese tra loro interconnesse e concentrate territorialmente, costituite da produttori specializzati, fornitori di servizi, imprese di settori adiacenti ed istituzioni connesse, che cooperano e competono tra loro. Questa definizione evidenzia il venir meno di una delle componenti essenziali del distretto industriale, la comunità come sistema regolatore, oltre che della dimensione di sviluppo spontaneo a cui si sostituisce quella di possibile sviluppo costruito e governato (Zanfrini 2001).
Questo mutamento di prospettiva all’interno dei sistemi produttivi locali rappresenta il segno delle pesanti trasformazioni prodotte dai processi della globalizzazione, che ha inoltre determinato un notevole intensificarsi della pratica della delocalizzazione come strategia, volta non solo alla gestione delle situazioni di crisi aziendale, ma al raggiungimento più generale dell’obiettivo di incremento del profitto in contesti più convenienti.
Questo comporta l’indebolimento del rapporto dell’azienda con il territorio e più in generale, di una condizione di indifferenza rispetto alla collocazione territoriale dell’azienda, che impone ai territori di attrezzarsi per aumentare la propria attrattività, attraverso adeguate strategie di marketing territoriale (Cairoli 2000).
Questa situazione pone allo stesso tempo l’azienda in una posizione di potenziale egemonia rispetto ai suoi dipendenti e più in generale al capitale umano, ridotto alla stregua di una qualsiasi risorsa aziendale, gestibile in termini di competitività economica e riduzione dei costi. In tal senso prassi abituale diventa quella di delocalizzare all’estero le funzioni produttive e riorganizzare le attività ad alto valore aggiunto come il design, la progettazione e la ricerca e sviluppo ancora nel distretto originario, ma spesso attraverso network di lunga distanza che collegano progettisti e ricercatori in luoghi lontani; condizione per la quale Sabel ha coniato l’ossimoro di distretti in movimento (Sabel 2004).
Un’alternativa a quest’ultimo modello di impresa è rappresentato dall’emergere di un nuovo tipo di media impresa (con un numero di addetti fino a 250 ed un fatturato fino a 50 milioni), che assume il ruolo di direzione, coordinamento e governance di reti di imprese e filiere produttive (Pichierri 2011).
Riferimenti bibliografici
Becattini G. (2000), Il distretto industriale. Torino: Rosenberg & Sellier
Cairoli M. G. (2000), Marketing territoriale, Milano: Franco Angeli
Crouch C., Le Galès P., Trigilia C., Voelzkow H. (2004), I sistemi di produzione locale in Europa, Bologna: Il Mulino
Marshall A. (1972), Principi di economia, Torino: Utet
Pichierri A. (2007), I sistemi socio-economici locali, in Regini (a cura di), La sociologia economica oggi. Roma: Laterza
Pichierri A. (2011), Sociologia dell’organizzazione. Roma: Editori Laterza
Porter M. (2000), Locations, Clusters and Company Strategies, in The Oxford handbook of economic geography, a cura di Clark G. L. et. Al, Oxford-New York: Oxford University Press
Sabel C. (2004), Distretti in movimento, in La governance dell’internazionalizzazione produttiva, Quaderni Formez, n.28
Trigilia C. (2005), Sviluppo locale. Un progetto per l’Italia. Roma: Laterza
Zanfrini L. (2001) Lo sviluppo condiviso. Un progetto per le società locali. Milano: Vita e Pensiero