Negli ’50 in Italia si è consumata una sorta di “guerra civile” di cui nessuno parla, ma su cui invece sarebbe molto importante iniziare a riflettere per capire meglio la genesi di tanti processi economici, politici e sociali che ormai sono oggi giunti alla loro forma di espressione più esacerbata e violenta a livello non solo nazionale, ma su scala globale.
Si tratta dello scontro tra due modelli manageriali alla cui base erano due modelli opposti di visione dell’uomo e della società: il modello autoritario e verticista di Valletta (FIAT) e quello democratico e partecipativo di Olivetti; guerra da cui è uscito vincitrice incontrastato il primo, ed oggi ne paghiamo amaramente le conseguenze.
Ma non è una questione solo italiana.
Il modello manageriale di Valletta nasceva in Italia entro la cultura e l’ideologia fascista e si sarebbe poi incrociata con i modelli manageriali americani, progenitori degli attuali modelli manageriali di stampo neoliberista resi univocamente egemonici dalla globalizzazione, fondati sui dogmi della crescita economica, del profitto, della competizione e del successo ad ogni costo.
Il modello manageriale di Olivetti prendeva vita entro la visione comunitaria di un socialismo cattolico inviso a molti cattolici, che poneva al centro della propria azione le persone quali attori principali del successo dell’impresa, generando un filone di riflessioni e prassi operative interne alle aziende da cui poi sarebbe scaturito lo sviluppo di politiche orientate allo sviluppo del benessere organizzativo e della responsabilità sociale d’impresa. Senonché, quest’ultima sarebbe stata anch’essa assorbita dal verbo neoliberista della globalizzazione entro l’ossimoro dello sviluppo sostenibile, di fatto soltanto un modo per mantenere in vita un’ideologia sviluppista che troppo sostenibile non è, come ci ricordano tanti analisti politico, economici e sociali, quali Latouche, Amin, Illich, Sachs, Georgescu-Roegen e altri; cosi come nelle sue concrete prassi applicative – quando ci sono – il benessere organizzativo finisce troppo spesso per declinarsi nelle forme del welfare aziendale, centrato sulla fornitura di benefit di natura monetaria e/o di servizi, anch’esso espressione però di quella logica “sviluppo sostenibile” di matrice globalista neoliberista e quindi economicista, che in realtà poco ha a che vedere con la qualità della vita psico-fisica delle persone (lavoratori) e lo sviluppo del “buen vivir” delle comunità locali entro cui le imprese vivono.
C’è bisogno invece di una seria ed onesta riflessione su questi temi, per riportare al centro l’uomo e ricondurre l’economico entro il sociale, come ci esortava a fare Polany e poi Granovetter.
Per far questo c’è però bisogno di una rinnovata sinergia tra le diverse scienze sociali, fuori dal chiuso delle accademie, in cui troppo spesso i loro attori perseguono esclusivamente il proprio successo personale, in una rinnovata accezione della ricerca quale “ricerca-azione”, con piena responsabilità nelle declinazioni applicative dei risultati di ricerca e la messa a servizio dello sviluppo sociale delle comunità locali delle migliori forze intellettuali locali e globali.