Da una prospettiva psicoanalitica, la depressione può essere intesa come la reazione a una perdita che mette in crisi l’immagine di sè per effetto del confronto con il limite del proprio desiderio; ossia con il limite della possibilità di realizzare i propri desideri attraverso un totale possesso dell’altro, oggetto o persona che sia.
Il confronto con questo limite mette in discussione la propria identità, la propria percezione di sé, come persona capace di fare. Ma questo non è un fatto di per sé negativo, perché porta a confrontarsi con la possibilità di un’esperienza esistenziale più limitata, parziale, meno onnipotente ed in quanto tale più vera, reale; un’ipotesi di vita che accetta il limite e lo integra nella propria esperienza esistenziale.
Ma tutto ciò richiede un processo di elaborazione, che si ricollega al passaggio dalla posizione schizo-paranoide alla posizione depressiva, come teorizzato dalla psicoanalista Melanie Klein nella prima metà del secolo scorso.
Questo processo è legato alle prime fasi di vita del bambino ed in particolare alla relazione tra bambino e madre, o più specificamente, seno materno, percepito come oggetto parziale, in quale modo quasi scollegato dall’interezza dell’oggetto materno.
Secondo il modello della Klein, intorno al 4° mese di vita, il bambino si rappresenta l’assenza del seno materno come un oggetto aggressore (su cui è proiettata la sua aggressività in quanto non soddisfa immediatamente il proprio desiderio) e come tale vissuto con un’angoscia persecutoria, basata appunto sulla scissione e proiezione della propria aggressività. Intono al 6° mese di vita avviene un cambiamento fondamentale; il bambino scopre il senso di colpa, si sente responsabile per quell’assenza: il seno materno è assente perché lui l’ha distrutto con la propria aggressività e quindi l’angoscia per la sua assenza si trasforma da persecutoria in depressiva.
A questo punto entra in gioco la madre, con cui è in un’interazione circolare che consente di procedere lungo la via di questo processo; madre, che con la sua modalità relazionale, riproponendo il seno al bambino, può contribuire allo sviluppo dell’esperienza della riparazione e dello sviluppo del senso di fiducia verso l’altro “care-giver” e della sua amabilità come persona.
Questo processo passa per il confronto con il limite della propria aggressività da parte del bambino. Egli avverte la non totalità del proprio potere sull’oggetto seno, fino ad allora percepito quasi come una propria estensione e da lì in poi percepito come l’embrione del concetto dell’altro esterno a sé, ma allo stesso tempo, proprio per questo, comincia a sviluppare l’idea della riparabilità degli oggetti danneggiati dalla propria aggressività.
Questo processo si pone alla base di quello che poi lo psicoanalista Renzo Carli e la psicologa Rosa Maria Paniccia, docenti dell’Università La Sapienza di Roma, individueranno come un fondamentale snodo dei meccanismi alla base dei processi di convivenza sociale: la dinamica del possesso contrapposta a quella dello scambio nella relazione con l’altro.
In tal senso quindi l’esperienza depressiva si pone come base della possibilità di uno sviluppo sano sia a livello individuale che sociale, in quanto rappresenta il presupposto per il confronto con l’esperienza del limite e la sua integrazione nella propria vita personale, il che consente di integrare il proprio desiderio con il senso della realtà (principio di piacere e principio di realtà nella teoria freudiana) e, allo stesso tempo, di confrontarsi con la possibilità-necessità di passare da una modalità relazionale che vede l’altro come oggetto parziale da possedere per il soddisfacimento del proprio piacere, ad una modalità relazionale che si fonda sulla consapevolezza della complessità dell’incontro con un altro da sé intero, dotato di propri desideri e visioni del mondo, con cui istituire una relazione di scambio reciprocamente creativa e produttiva, in vista di un bene comune.
E questo a sua volta diventa un elemento cruciale su cui riflettere in un momento storico come quello attuale, in cui le relazioni sociali si stanno sempre più riducendo ad un individualismo sempre più sfrenato – spinto da un’ideologia egemonica di matrice neoliberista – che vede nell’altro da sé sempre più solo un oggetto di soddisfacimento narcisistico.
In tal senso, la possibilità e la necessità di elaborare e superare le esperienze depressive che la vita propone all’esistenza individuale diventa la base non solo per lo sviluppo di una maggiore salute mentale a livello individuale, ma anche il presupposto per lo sviluppo di sistemi relazionali e di convivenza sociale maggiormente orientati al benessere collettivo ed il cambiamento in meglio di una società, che attualmente appare allo stallo.
Il lavoro psicologico di rielaborazione dell’esperienza di perdita diventa allora capire il senso di cosa si è perso (oggetto, persona, status o altro oggetto simbolico), come il desiderio di possesso di tale oggetto fosse centrale per la propria identità, come dare senso a questa perdita ed al desiderio ad essa soggiacente, e come indirizzare il proprio desiderio in una maniera più efficace rispetto ad uno scambio con il proprio contesto relazionale che sia quanto più possibile reciprocamente soddisfacente.
Tutto ciò richiede però un presupposto fondamentale: che la persona interessata trovi la motivazione per affrontare responsabilmente questo percorso di sviluppo personale.